L’arte fatta coi piedi: Gutai giapponese

Uno degli aspetti più belli dell’arte è che anche in situazioni di forte disagio e difficoltà riesce a mantenere uniti popoli e nazioni. Un caso esemplare è la nascita del gutai, un movimento artistico nato a metà degli anni Cinquanta in Giappone. Il tragico evento che colpì Hiroshima e Nagasaki nel 1945 è noto a tutti e fu uno degli esempi di quanto può essere distruttivo e crudele l’essere umano, inoltre fu senza dubbio il punto più dolente del rapporto tra Stati Uniti e Giappone nella seconda guerra mondiale. Proprio per questo motivo in quegli anni sembrava impossibile ripensare a un legame fra queste due nazioni, ma contro tutte le probabilità successe e grazie all’arte! L’espressionismo astratto e il suo “front-man” Jackson Pollock stavano spopolando in tutto il mondo: era un modo completamente nuovo di concepire la pittura, tremendamente fisico, impetuoso, quasi scioccante e proprio tutti lo seguivano e lo osservavano con estrema curiosità. Persino in Giappone non poteva essere ignorato e così, anche nel posto più improbabile, nacque un movimento ispirato alla nuova arte americana.

Ciò che più di tutto aveva colpito i giapponesi era il coinvolgimento corporeo che questo processo creativo implicava. Lo esaltarono, lo portarono all’estremo e basarono la loro produzione proprio su questo concetto. L’intento, chiaramente, non era solo quello di trasportare dall’altra parte dell’oceano le trovate statunitensi, ma anche di scavalcare con spirito di trasgressione e spensieratezza le tradizioni ritualizzate, e oramai troppo pesanti, della loro cultura. Da tutto ciò però non nacquero delle opere che possono essere considerate dei veri e propri pezzi pittorici, come al contrario invece lo sono i capolavori del gruppo de “Gli Irascibili”.

Le tele dei nipponici erano prodotte da corse, pugni e scivolate e tutto ciò era il vero fulcro della creazione, i quadri che si ottenevano a lavoro terminato non avevano lo stesso peso del processo che era stato utilizzato per crearli, ed è così infatti che i critici preferiscono definire la produzione gutai performance, piuttosto che pittura e anzi fu proprio la volontà di interpretare il gutai come espressione pittorica che segnò definitivamente la caduta del movimento, a causa di un vergognoso insuccesso in una mostra organizzata, neanche a farlo apposta, in America presso la galleria di Martha Jackson. Kazuo Shiraga fu il fondatore del movimento, la sua filosofia era quella di azzerare completamente la distanza tra tela e artista. Spalmava il colore con i piedi e non si avvaleva di nessunissimo strumento che avrebbe potuto mettersi in mezzo al suo corpo e alla pittura. Shiraga utilizzò la sua sentita corporalità in relazione anche a materiali meno convenzionali, come ad esempio il fango.

In occasione dell’inaugurazione di un’esposizione gutai a Tokyo Shiraga si scagliò contro una massa di fango, quello stesso giorno Saburo Murakami si gettò contro una serie di pannelli di carta trapassandoli da una parte all’altra. Tutti questi gesti non fanno che esaltare e confermare la vicinanza alla pratica performativa, i quadri, se così si possono definire, che ne risultavano non erano altro che dei semplici residui. L’esperienza gutai non durò a lungo, si sciolse ufficialmente nel 1972, diciassette anni dopo la sua fondazione, ma già nel 1958, in occasione della sopracitata mostra, cominciò il suo declino. In ogni caso è stato senza dubbio un movimento dal carattere anticipatore, ponendo il corpo e il movimento al centro della sua produzione ha senza dubbio preannunciato la grande stagione della performance art, i cui anni di pieno splendore arrivarono solo nel decennio dei Settanta.

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